La Gabbia

 

 

 

 

La gabbia la ricordo bene.
Erano ancora anni di zoo, anche a Milano, e lì si andava a cercare un po’ di giungla dopo tante letture.
Saziava il naso prima degli occhi solo l’avvicinarsi alla recinzione esterna. L’odore dei romanzi.
Quello che già alla discesa del tram valicava la barriera degli alberi.
E sembrava gridare alle narici ancor prima che agli occhi: hic sunt leones.
Sentito, quell’odore, nitido e forte, leggendo avventure di pirati e di mari, isole, foreste, animali immaginati, e sentiti quasi dentro, a ruggirti potenti, mentre li leggevi.
E poi c’erano gli amori impossibili.
In quei romanzi.
Incrociati dal destino.
Quelli tra la figlia di un governatore inglese e un pirata, tanto forte quanto gentile.
Quel sapore di totale adesione dei sensi tutti intorno ad un pensiero, un rumore, un odore o una tempesta in alto mare.
La gabbia la ricordo bene, me la porto dentro da allora.

E ritrovarla qui, adesso, ha quasi un sapore ancora più particolare.
L’uomo e la donna sono a Singapore.
L’isola ha un nome che evoca i mari tropicali. Lì davanti alla città scavata nella foresta, dove finisce l’una comincia l’altra, senza nemmeno una percepibile soluzione.
L’isola di Sentosa.
E lì, uomo e donna camminano sui viali, in una giungla costruita intorno agli animali.
E’ l’ora che precede la chiusura.
Camminano nel silenzio. Solo rumore di uccelli e di cicale. O qualche altro insetto che trema la sua voce, lì, all’ombra allungata lungo i piccoli viali.
Le gabbie che si annunciano con i loro odori.
Prima ancora che si svolti di viale o si cambi percorso, sono lì ad evocare muscoli, denti e tensione delle schiene e degli addomi.

La gabbia è d’angolo.
Separata dalle altre da una barriera di cespugli alti e fitti, quasi incastrata e nascosta.
E dentro, nella gabbia larga, due fasci neri di pelo raso, corto, e ad avvolgere gabbia e cespugli, un’isola di fortissimo e selvaggio odore.
Accostati alle sbarre, l’uomo e la donna guardano il movimento dei due animali.
Hanno finito il pasto.
La femmina, nera di pelo, lucida al passare della saliva, si pulisce il viso, simile a un enorme gatto.
La zampa nera, lucida sino a sembrare blu, al riflesso radente della luce.
Il maschio si aggira nervoso.
Sale sul ramo.
Dell’albero al centro del loro mondo stretto.
Un albero che cresce inclinato e sembra flesso sotto lo scatto e il peso della bestia che vi giace mollemente sopra, a ricadere con le zampe come una coperta nera messa ad asciugare.
Il maschio sul ramo quasi orizzontale, porta la gola a squarciarsi, spalancata, come se volesse aprire la testa tutta e non solo le mascelle. Sembra di vedere uscire vapore caldo dal buio della gola, la lingua rossa e i denti che hanno la lucentezza di una collana, l’alito che sembra una nube umida di vapore.
La femmina si lava con la zampa. Minuziosa.
Prima il muso, il naso, i lati della bocca.
Gli occhi che al passaggio della zampa tiene chiusi.
E poi riapre luminosi e gialli.
Poi i lati del viso, le orecchie, che dopo il passaggio della zampa, tornano tese. All’erta del nulla che li circonda.
L’uomo e la donna fermi, affiancati e uniti dal braccio di lui sulla spalla ad osservare.
Intorno il deserto dello zoo che si ormai si svuota.
Il maschio, a fauci spalancate, ha un brontolio forte che sale da dentro e non sembra nemmeno nato dalla gola.

L’uomo e la donna si sono fermano.
Quasi inchiodati a guardare i corpi neri, lucenti in quella luce, a quasi sera.
Il maschio a stirarsi sul tronco e a inarcare ogni osso della schiena. Rinnovando più e più volte lo spalancarsi della gola.
E quel suono forte, sordo, inquietante.
Portato dal fiato caldo fin oltre le sbarre.
Impossibile non immaginarlo nella foresta, lui e la sua femmina insieme in caccia, a far tremare altri uomini nel villaggio.
La femmina sembra avere una grazia, voluttuosa e morbida di muscolo lucente, tutta sua. E la sinuosità di una molla animale.
Si lava come se fosse indifferente all’alito del maschio che le arriva.
Raggiunge ogni angolo prima con una, poi con l’altra zampa anteriore.
E’ minuziosa e lancia sommessi rumori di gola come se quel gioco di abluzioni e di carezze fosse uno dei piaceri della sua vita. Ora è quasi chinata sulla schiena.
Rovesciata offrendo alla luce il ventre teso.
Si lecca il petto, lucidi sotto la lingua affiorano tra i peli piccoli capezzoli duri.
Uno dopo l’altro li carezza. Li lava. Col brontolio in fondo alla gola.
Poi scende, flessa come un arco chiuso, senza sforzo alcuno al sesso.
Lo lecca e lo separa.
Coi colpi della lingua. Lo lava.
Lecca con cura.
Fin sotto l’attaccarsi della coda. Batte con la coda l’aria nel farlo.
Al cadere delle lingua lì sotto, la coda si fa frusta, sempre più secca e veloce, e taglia l’aria fino a battere, dura, nervosa, sul terreno.
L’uomo e la donna guardano i movimenti della bestia. Così morbidi eppure così intensi. Ad ogni sbattere di coda è come se suonasse un tamburo.
Il maschio, dal suo tronco, lì sospeso a ponte, volge lo sguardo.
Osserva con gli occhi che bruciano, taglio rovente giallo nel nero blu scuro del pelo, lucido e corto, quasi rasato, quasi velluto nero tralucente sui muscoli e sulla pelle.
La femmina si lecca e mugola di gola. Roca.
Un rantolo caldo e vibrato come un canto.
Un tremito di ventre fatto suono.

L’uomo stringe a se la donna per la spalla.
Lei è lì a fissare gli animali ipnotizzata.
Mentre il maschio nella gabbia scivola dal tronco. E sfiora lento con il pelo le sbarre tutto intorno.
Fa un giro, quasi un cerchio, volta il muso verso le persone lì fuori che lo guardano in silenzio, e fissa gli occhi.
Immobili, fissi e lucenti sembra forarli oltre le sbarre e guardare loro attraverso.
Poi, con un rumore profondo, scavato dalla gola, volge il capo di scatto verso la femmina che ha lanciato un ennesimo lamento sotto i colpi della sua stessa lingua.
Ora il maschio guarda la femmina.
Le narici larghe a pulsare l’aria.
Si dilatano, il muso volto a lei fisso, leggendone l’odore nella gabbia.
Cercano. Lucide e scure, dilatate e poi serrate come se non fossero nari ma pupille.
Si inarca.
Fermo.
Poi scarta a lato e in un balzo inatteso è sulla femmina, che rotola sotto di lui, nella polvere, sul fianco.
E fuori dalla gabbia, la mano dell’uomo scivolata sulla spalla, lungo la schiena, salda adesso sul culo della donna si serra a quello scatto e quell’atterramento.
Lei, a fiato sospeso, guarda la pantera assaltare la sua femmina improvvisamente.

Lecca gli occhi.
Con la lingua piatta. Un po’ dura.
Poi volge il capo, si torce. A lato.
Scivola a bocca aperta sulla nuca.
La allarga quasi a rovesciarla. Afferra nuca e collo.
Morde senza infliggere il morso. La annusa, mentre la tiene ferma sotto la bocca aperta, alla ricerca di ogni odore del suo corpo.
Poi molla la presa e scivola con l’odore del corpo.
La annusa tra le cosce, e poi sul dorso. Fino alla nuca, nuovamente, che stringe e serra, senza ferire, fra i denti.
Abbraccia la sua carne, lì, vulnerabile e offerta, tra i suoi denti.
E lecca la nuca fino in alto. Risalendo a bocca aperta, i denti quasi ritratti adesso, solo a sfiorare, sul collo.
La femmina rialzata, poggiata a terra, inarcata. Il capo più basso delle anche.
Le anche sollevate ad offrire, alto, culo e sesso.
Con collo torto indietro a offrire aperta la bocca. Alito caldo.
Che si mischia e si fonde.
Il maschio che le sale sulla schiena. La copre ricadendole addosso, mantello lucente di voglia.
Il cazzo teso a fendere l’aria.
A cercare di infossarsi, farsi strada da dietro, sotto, e risalire nel suo ventre.
Morde a fermarla alla clavicola la femmina, che ha uno scarto.
Quasi a volersi liberare dal corpo che ora la sovrasta. Che incombe a schiacciare e tenere fermo sotto il suo.
Solo il rumore del retro della gola. Lei lo sfida.
Profondo e arrotato. Caldo di fiato.
Il maschio è sopra ora la tiene ferma. Lei alza il bacino e si offre aperta.
Inarca le reni ora, sopra, sempre di più solleva le anche e ha il capo a terra.
Il maschio si solleva, lascia la stretta sul collo, si solleva inarcando il tronco, e scivola, senza guida, caldo a governarle il ventre.
Affonda.
Calza l’interno e ci si ferma.
Sono lucidi di sudore. Adesso.
L’uomo, infisso in lei le afferra i seni, e le si muove lentamente dentro.
Li serra nelle mani, ne strappa il fiato che li gonfia. Poi spinge, diventa violento con i colpi delle anche a percuotere lei ogni volta, cercando di annientarsi in quella corsa.
Al buio della stanza nella sera, la loro sembra la danza di due animali nella gabbia.
Ad annusare, con le narici e con il corpo, il loro sesso.
Vivono, poco lontani dallo zoo, nel vecchio albergo coloniale, degli odori e delle ombre.
Del rantolo che sa di giungla, della gola, nella voglia. E del silenzio di foresta calda, umida di monsoni e pioggia verde, della città sul mare.
Non usciranno, fino al giorno dopo, dalla loro calda gabbia. Dormendo, allacciati e sciolti come sdraiati sulla nuda terra, nel letto grande di metallo.



 

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